Perché Dyson ha scelto di ritirarsi dal progetto dell’auto elettrica

Francesco Giorgi
15 Ottobre 2019
Dyson abbandona il progetto dell'auto elettrica

Marcia indietro del magnate degli elettrodomestici ciclonici: non ci sarà una “Dyson-car”. Anche questa può essere considerata come una scelta coraggiosa.

Da quasi un trentennio, l’immagine Dyson nel mondo è legata alla produzione di aspirapolvere, asciugacapelli, ventilatori, umidificatori, asciugamani elettrici hi-tech (la tecnologia ciclonica) ed in possesso di un design tutto personale. Per il momento, a quanto sembra, il core business rimarrà questo, anziché dirigere parte della propria attività su comparti come quello automotive, e dell’auto elettrica nella fattispecie. Tanto che, come nel caso di Dyson, si può arrivare a decidere di ritirarsi prima ancora di avere prodotto un solo esemplare.

Il progetto cancellato

È, in estrema sintesi, quanto deciso nei giorni scorsi da James Dyson: dopo due anni esatti di attesa per quella che, secondo le intenzioni manifestate all’inizio dell’autunno 2017, a breve-medio termine sarebbe stata la prima auto elettrica “made by Dyson”, ora tutto è stato cancellato. Niente più ingresso nel competitivo settore della mobilità “zero emission”, dunque: si preferisce fare tesoro dell’esperienza accumulata in questi due anni di progetti, per evolvere la produzione di batterie solid state, sistemi di intelligenza artificiale, dispositivi di robotica. Come dire: si preferisce investire dove già si è forti. Almeno per ora.

Facciamo un po’ di storia (e diamo qualche cifra)

Come si ricorderà, a fine settembre 2017 Dyson aveva annunciato che, entro il 2020, la prima “Dyson-car” sarebbe stata pronta per debuttare sul mercato. Per questo progetto, il magnate inglese degli elettrodomestici ha puntato neanche poco: più di 2,2 miliardi di euro (al cambio) finalizzati all’acquisizione di un ex scalo militare della Raf (l’Hullavington Airfield, situato ad una quarantina di km da Bristol), l’edificazione di strutture ed uffici da destinare ai reparti di ricerca e sviluppo ed amministrativi, piste di collaudo; gli studi nel campo delle batterie solid state, tecnologia tuttora in fase di sperimentazione; una forza lavoro da più di 400 dipendenti – fra l’altro, capeggiati da Roland Krueger, già dirigente Bmw e presidente Infiniti dal 2014 allo scorso gennaio: un manager in possesso di una cospicua esperienza commerciale in Asia – ed i riflettori puntati verso Singapore, presso un sito produttivo di proprietà della stessa Dyson dove attualmente lavorano circa 1.100 persone, che sarebbe dovuto essere lo stabilimento di produzione della “Dyson car”. Per di più, lo sviluppo di produzione era stato affidato a Ian Minards, ex numero uno della Divisione Engineering di Aston Martin; lo staff degli ingegneri vedeva in John Stamford (già tecnico nel Team Mercedes-AMG di F1)  il proprio “numero uno”, ed Andy Gawthorpe, ex responsabile delle attività Marketing e Planning di Jaguar Land Rover, era stato nominato direttore commerciale del neonato reparto Automotive di Dyson.

Il brevetto di maggio 2019

La scorsa primavera, Dyson rese pubbliche tre domande di registrazione di brevetto, che facevano riferimento ad una vettura caratterizzata da una carrozzeria SUV, cerchi di generose dimensioni, circa 5 m di lunghezza e tre file di sedili. La “e-car by Dyson” veniva indicata per un prezzo sul mercato nell’ordine delle 100.000 sterline. Un importo che, sebbene l’intero progetto era sulla carta, suggerì all’opinione pubblica l’appellativo di “anti-Tesla”, ad indicare manifestamente l’azienda-simbolo nel settore dell’auto elettrica quale paragone.

Ci sarebbe spazio per un competitor che proviene da altri settori?

La scelta del baronetto del Norfolk offre più di uno spunto di riflessione. Da una parte, c’è quanto si evince dalle parole della mail circolare inviata ai suoi dipendenti, nella quale – come accennato – il 72enne tycoon inglese punta chiaramente i propri riflettori sul notevolissimo impegno che l’entrata in campo di un’azienda incontrerebbe nel debuttare in un settore industriale tutto nuovo, ed in special modo dopo essersi costruita una solida immagine in altri comparti. Dall’altra, ed in un certo senso complementare alla decisione di Dyson, le questioni relative al futuro industriale. Qualsiasi riferimento ai “big player” tedeschi non è assolutamente casuale: il Gruppo VAG, Bmw e Daimler AG mettono sul piatto decine di miliardi di euro rivolti all’elettrificazione (non, quindi, unicamente allo sviluppo dell’auto elettrica, bensì ad una ricerca a ben più ampio spettro: zero emissioni, tecnologia di alimentazione ibrida, ibrida plug-in; ma anche in merito a nuove tecnologie di abbattimento degli ossidi di azoto nei “convenzionali” motori a combustione). Nio, la company americana a capitali cinesi, dopo un promettente avvio adesso sembra avere il fiato un po’ più corto rispetto a quando aveva preso il via la propria avventura nel settore dell’auto elettrica. Il “caso” Tesla è, poi, sotto gli occhi dell’opinione pubblica: la factory californiana, cui va il merito di avere decisamente aperto la strada dell’auto elettrica di nuova generazione e che parte delle proprie entrate deve alla vendita dei “crediti zero emissioni” ad alcune Case auto per aiutarle ad abbassare la rispettiva media di emissioni di CO2 (celebre, in questo senso, la vendita dei “crediti” ad Fca dei mesi scorsi), pur essendo oggi giunta al record di produzione con la compatta Model 3 ed avendo alle spalle oltre un decennio di esperienza nel settore dell’auto elettrica, non è “in utile”.

Dunque: sebbene l’ambizione ed il coraggio appartengano al bagaglio di qualsiasi imprenditore, questi non devono essere disgiunti da lungimiranza. Se mai come oggi occorre diversificare, mai come oggi lo spazio per i “newcomer” dell’auto 100% elettrica potrebbe essere sempre più ristretto.

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