Il futuro dell’alleanza Fiat-Chrysler

Redazione
02 Febbraio 2009
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Il futuro dell'alleanza Fiat-Chrysler

Prospettive e pericoli che si aprono sull’asse dell’accordo Torino-Auburn Hills

Prospettive e pericoli che si aprono sull’asse dell’accordo Torino-Auburn Hills

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La premessa necessaria è che siamo di fronte a un primo passo soltanto, una specie di fidanzamento: Fiat e Chrysler hanno firmato una lettera d’intenti non vincolante per la creazione di un’alleanza strategica globale. Si tratta di un’unione tra Costruttori che oggi raggiungono quattro milioni di veicoli prodotti l’anno.

Dopodiché, se l’intesa diventerà matrimonio vero e proprio, allora si arriverà a uno scambio molto semplice. Il tutto potrebbe verificarsi ad aprile 2009. Vediamolo.

Che cosa ottengono gli americani

Chrysler avrà l’accesso alle piattaforme (le “ossature” delle macchine) Fiat per veicoli a basso consumo, motori, trasmissioni e componenti, che saranno prodotti negli stabilimenti della Casa americana. Sono le “basi” di Panda, 500, Punto (la Grande e la vecchia) e Bravo. Sono inclusi i nuovi propulsori Multiair a due e quattro cilindri a iniezione diretta (con o senza turbocompressore) e i diesel quattro cilindri.

In più, Chrysler potrà utilizzare la rete di distribuzione Fiat: un’opportunità per vendere di più in diversi Paesi che non siano gli States.

Agli italiani una fetta di colosso

Come corrispettivo, Fiat riceverà una quota iniziale del 35 per cento del capitale del gigante americano. Da parte italiana, non c’è nessun esborso di cassa subito verso gli americani né impegni a finanziare Chrysler in futuro.

Inoltre, secondo indiscrezioni, Fiat potrà addirittura salire al 55% di Chrysler, sborsando 25 miliardi di dollari.

Obiettivo, soldi del Governo USA

Chrysler (che controlla anche Dodge e Jeep) è in crisi nera: rischia il fallimento. Nel 2008, ha venduto un terzo in meno dell’anno prima. A dicembre 2008, il crollo è stato del 50%, a 89.813 unità.

Nel 1998, la tedesca Daimler l’aveva comprata per 36 miliardi di dollari. Ma l’unione finì male. Così, nel 2007, il fondo d’investimenti Cerberus rilevò l’80,1 per cento dell’azienda americana per 7,4 miliardi di dollari. Adesso non ha nessuna intenzione di rimetterci, e va a caccia di alleati per risorgere (Daimler stessa sta cercando di disfarsi del proprio 19,1 per cento).

A tale proposito, il neopresidente americano Barack Obama è stato chiaro: Chrysler beneficerà degli aiuti del Governo USA a patto che dimostri di saper costruire auto piccole e a basso impatto ambientale. Proprio per questo, le piattaforme Fiat per le citycar sono preziose come l’ossigeno.

In ballo ci sono due somme. Anzitutto i quattro miliardi di dollari che il Governo ha già prestato a Chrysler. Il Costruttore potrà tenere quel denaro e non restituirlo soltanto se presenterà un piano concreto dove provi di esser capace di produrre macchine che inquinano poco. Chi meglio di una Casa come Fiat, con decenni di esperienza nel settore delle vetture piccole, può dare una mano agli americani? Ai quattro miliardi già presi e comunque in bilico, si aggiungono tre miliardi di dollari, anch’essi vincolati alla presentazione del piano. Idem per l’altra grande malata americana, General Motors, sull’orlo del baratro: ha ricevuto un prestito condizionato a un piano di macchine ecologiche. Il terzo colosso in crisi, Ford, invece non ha ancora chiesto prestiti.

Non è detto che anche Fiat possa usufruire, seppure indirettamente e come alleato di Chrysler, dei sette miliardi stanziati dal Governo USA. Una prospettiva che non viene digerita granché da numerosi senatori americani. I quali si chiedono perché i contribuenti del proprio Paese debbano prima dare denaro a un’azienda a stelle e strisce, per poi consentire anche a Fiat di godere dei benefici della rinascita Chrysler.

Visto che l’eventuale approvazione del piano potrebbe arrivare ad aprile 2009, questa è la data che potrebbe vedere la firma dell’alleanza definitiva fra Fiat e Chrysler (le nozze). Infatti, l’ok del Governo agli aiuti è la condizione necessaria per il matrimonio futuro: così è scritto nell’intesa.

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Già 20 anni fa, Gianni Agnelli (Fiat) e Lee Iacocca (numero uno Chrysler) arrivarono quasi all’accordo. Ma poi non se ne fece più nulla, perché Torino venne “spaventata” dalle pensioni che la Casa USA doveva pagare agli ex dipendenti, e non se la sentì di caricare sulle proprie spalle quel fardello.

Invece, si fece il matrimonio fra Fiat e General Motors, che però non diede i frutti sperati, e terminò con un divorzio, quattro anni fa, dietro versamento di una penale da parte americana.

Tutto ha un prezzo

È pur vero che Fiat non paga quel 35% di Chrysler, però il valore industriale delle piattaforme concesse agli americani è stimabile attorno ai tre-quattro miliardi di dollari. Un “incasso” virtuale che Bob Nardelli, numero uno della Casa USA, ha fatto presente a quei senatori americani poco convinti dell’intesa con Fiat: ci si guadagna in due, non soltanto Torino, questo il discorso dell’amministratore delegato statunitense.

Se invece Chrysler dovesse sviluppare da sé la tecnologia fornita da Fiat, dovrebbe sborsare 750 milioni di dollari per piattaforma.

Sette modelli in vista

Grazie alla loro alleanza, Fiat e Chrysler introdurranno sul mercato americano sette modelli: verranno tutti prodotti negli stabilimenti USA e venduti tramite le concessionarie dei tre marchi del colosso di Detroit (Chrysler, Dodge e Jeep). Lo sostiene il quindicinale “Automotive News“. Quattro avranno il marchio Chrsyler e tre quello Fiat (probabilmente la 500) o Alfa Romeo (forse la MiTo o l’erede della 147).

La 500 potrebbe essere prodotta da Chrysler nell’impianto messicano di Toluca. Può darsi che a liberare le linee ci pensi la PT Cruiser, quasi alla fine del suo ciclo di vita.

Siccome Fiat potrebbe sfruttare gli stabilimenti oggi sottoutilizzati da Chrysler (vedi, oltre a USA, anche Canada e Messico), la UAW (United Auto Workers), ossia il sindacato metalmeccanico americano, ha benedetto il patto. Almeno per ora. Si tratta di salvaguardare migliaia di posti di lavoro.

Oltre a questi sette, per parte Chrysler, ci sono 24 nuovi modelli previsti da qui al 2011: fra questi, le nuove generazioni di Jeep Grand Cherokee, Dodge Charger, Dodge Durango e Chrysler 300C, più la realizzazione di una vettura elettrica di grande serie per la fine del 2010, dopo le concept del Salone di Detroit.

Torino in vista del grande Gruppo

Secondo l’amministratore delegato Marchionne, in futuro sopravvivranno soltanto i Gruppi automobilistici che riusciranno a produrre almeno 5,5 milioni di veicoli l’anno. Anche per questo, Fiat cerca alleati come Chrysler: intende far parte di una grande squadra, in grado di resistere alla crisi.

Grazie agli americani Fiat avrà anche la possibilità, in futuro, di mettere piede in due settori. Anzitutto, le grandi SUV e 4×4, che Chrysler produce da sempre. In secondo luogo, le auto elettriche. Perché il vecchissimo progetto di Panda elettrica (con batterie di vecchia generazione) non è poi proseguito con successo; e Torino potrebbe sfruttare la capacità di costruire macchine elettriche degli americani, che utilizzano moderne batterie al litio.

Però Marchionne potrebbe non fermarsi qui. C’è già un accordo con Ford: 500 e Ka vengono prodotte nello stesso stabilimento, in Polonia. Siamo a una generica intesa con Tata e BMW. In futuro, esiste la possibilità di un’alleanza anche con Peugeot, che a sua volta fa parte del Gruppo PSA (assieme a Citroën).

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Il grande azzardo del piccolo

Per la Chrysler, puntare sulle auto piccole negli States è pur sempre un azzardo. A parte che gli americani sono, da decenni, abituati a guidare macchine grandi; c’è anche da considerare la variabile benzina. Infatti, se il prezzo del carburante va alle stelle, gli automobilisti USA sono meno propensi ad acquistare le solite enormi SUV e fuoristrada, che “bevono” parecchio. A conferma di questo, le vendite dei macchinoni sono crollate proprio quando il barile di greggio ha toccato il picco. Invece, se il costo del pieno scende a livelli “umani” (grosso modo sulle cifre attuali), inevitabilmente gli americani tornano a desiderare auto grandi.

Non soltanto. Il consumatore tipo al quale le Case automobilistiche si rivolgono è assai difficile da inquadrare e prevedere. Oggi amano i SUV a benzina, domani desiderano una vettura media ibrida (con doppio motore: a scoppio ed elettrico), dopodomani potrebbero avvicinarsi alle piccole. Poi, tutto d’un tratto, magari con il prezzo della benzina che scende, ecco che il potenziale cliente delle concessionarie americane potrebbe tornare sui suoi passi, chiedendo di nuovo le macchine dov’è stato trasportato fin da bambino, e grazie alle quali ha imparato a guidare. Quelle vetture che lo hanno fatto diventare grande, le stesse in cui ha dato il primo bacio alla fidanzata, ha fatto viaggi lunghissimi negli sterminati spazi degli States.

Non è facile, per un Costruttore americano come la Chrysler che da sempre “sfama” la voglia di auto grande, rifarsi un’immagine e cominciare a vendere vetture piccole. Discorso identico per le altre due Case americane in difficoltà: General Motors e Ford.

Il rischio, concreto, è che un Produttore USA (in questo caso, la Chrysler) converta in parte la propria industria, sfruttando le piattaforme e la tecnologia Fiat per le auto piccole, e poi si ritrovi sui piazzali migliaia di veicoli invenduti. Non è così sicuro che una macchina come Fiat 500 o Panda o Grande Punto (tutte vetture affidabili e di successo in Italia e nel Vecchio Continente) facciano presa anche Oltreoceano.

Una riconversione industriale simile rappresenta un azzardo su quel tavolo di poker pieno di trabocchetti che è il mercato americano dell’auto.

Cara banca, ti chiedo

Un altro fattore che inciderà terribilmente sulle vendite delle piccole Chrysler in America sarà la concessione dei prestiti. Oggi, siamo ai minimi storici: le banche americane hanno stretto le maglie del credito. Di chi è la colpa? In primis della crisi dei mutui subprime: molti debitori non sono riusciti a pagare quanto dovevano, subendo pignoramenti dei beni e delle stesse case per cui avevano aperto il finanziamento. Ma parte della responsabilità della stretta creditizia va alla recessione in generale, che spaventa gli istituti finanziari, meno propensi a concedere denaro in prestito.

Il popolo americano è abituato a comprare tutto a rate, specie l’auto. Il discorso non cambia anche se la macchina da comprare è una piccola, molto meno costosa dei SUV. Le richieste di finanziamento continueranno a fioccare. In caso di concessione dei prestiti, le macchine (incluse le Chrysler) verranno vendute; altrimenti, sarà dura che la famiglia media americana, in un periodo di crisi economica, abbia voglia di sborsare una somma comunque importante. Sempre che ne abbia la possibilità, ossia che i soldi in contanti per acquistare l’auto li abbia davvero.

E anche le concessionarie stesse avranno bisogno di prestiti dalle banche per proseguire nelle loro attività, soprattutto adesso che le vendite sono in calo. Insomma, il denaro degli istituti finanziari dovrà alimentare sia gli operatori del settore sia i potenziali acquirenti.

Sarà necessario che si instauri un circolo virtuoso. Il Costruttore (Chrysler, ma anche General Motors e Ford) che produce auto piccole a basso impatto ambientale; il Governo USA che elargisce prestiti a quella Casa; la banca che concede il finanziamento (magari a tassi agevolati) al consumatore; questo che compra la macchina, frutto della riconversione industriale.

E ancora: in questo modo, dirigenti, impiegati e operai dei Produttori conservano il posto di lavoro, e con lo stipendio possono acquistare beni facendo crescere l’economia. Un ragionamento che si può estendere all’indotto: tutte quelle aziende, di qualsiasi dimensione (anche molto grandi), che ruotano attorno alle Case automobilistiche. Ci sono migliaia di posti di lavoro a rischio.

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