Fca e Psa: quale strategia per i prossimi anni?

Francesco Giorgi
04 Novembre 2019
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Fca Psa

Avanziamo qualche ipotesi sui modelli che potrebbero contestualizzare il nuovo panorama dopo l’integrazione fra i due Gruppi.

L’annunciata fusione tra Fca e Psa prepara una situazione piuttosto inedita per il futuro scenario del comparto automotive: il quarto Gruppo mondiale, per ampiezza e cifre di vendita (la new Co si attesterebbe, in riferimento alle più recenti performance di mercato, al quarto posto dietro Gruppo VAG, la “big Alliance” Renault-Nissan-Mitsubishi e Toyota Group; e davanti ad un altro colosso quale General Motors) è in effetti interessante, dal punto di vista dell’offerta, del riposizionamento delle rispettive lineup e dei progetti di eventuale condivisione delle piattaforme di modello, se si vogliono individuare – pur con il beneficio d’inventario – i nuovi scenari per la società frutto dell’integrazione Fca-Psa.

La distribuzione dei siti produttivi

Complessivamente, la new Co pronta a nascere dall’integrazione delle due realtà – e che vede John Elkann nel ruolo di presidente e Carlos Tavares in qualità di amministratore delegato – racchiuderebbe, sotto il medesimo ombrello, ben 15 Case costruttrici: dieci da parte di Fca (Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Dodge, Fiat, Fiat Professional, Jeep, Lancia, Ram e Maserati) e cinque da Psa (Peugeot, Citroen, DS, Opel e Vauxhall). Più Sevel, joint venture con sede in Abruzzo che dal 1981 produce veicoli di fascia Mpv e van per Citroen, Fiat e Peugeot sulla base della medesima piattaforma.

  • Fca. L’”asse Torino-Detroit” dispone di 102 insediamenti industriali in tutto il mondo, cinque dei quali in Italia, uno ciascuna in Polonia, Serbia e Turchia; in ambito globale, gli insediamenti principali sono presenti nel Continente americano (Michigan, Messico, Brasile e Argentina). La forza lavoro sfiora i 200.000 dipendenti. Nel 2018, il monte-vendite complessivo è stato di 4,8 milioni di autoveicoli.
  • Psa. Il Gruppo originariamente soltanto francese e ora “franco-tedesco” in virtù dell’acquisizione di Opel e Vauxhall (estate 2017) possiede 45 complessi industriali, fra cui cinque impianti in Francia, quattro fra Spagna e Portogallo, uno in Germania (Russelsheim, quartier generale Opel) e due nel Regno Unito (la produzione Vauxhall), Nazione quest’ultima attualmente alle prese con la delicata questione della Brexit; altrove, Psa è presente in Slovacchia (più precisamente a Trnava, dove avviene la produzione della nuova generazione di Peugeot 208) e, proprio da quest’anno, anche in Marocco (Kenitra, nuovo complesso industriale anch’esso funzionale all’assemblaggio di Peugeot 208). Per i prossimi mesi, è fissata l’apertura di uno stabilimento in Algeria. Il numero di dipendenti globali si attesta su circa 211.000 dipendenti. Nel 2018, gli autoveicoli venduti sono stati, a livello globale, 3,9 milioni.

Una proposta “generalista” a più ampio respiro

Iniziando dall’immagine di Fiat e Lancia (portati in dote da Fca) e, Citroen, Opel – con Vauxhall – e Peugeot (relativamente a Psa), la fusione tra i due Gruppi accorperebbe “brand” generalisti, per i quali si potrebbero (il condizionale è d’obbligo) ipotizzare delle piattaforme condivise, in funzione – chiaramente – dei rispettivi piani industriali. A cominciare del segmento B.

Fiat e Opel di nuovo “cugine”?

In un passato nemmeno lontanissimo, Fiat e General Motors condivisero l’architettura che fu alla base di Punto e Corsa. Oggi che in questa fascia di mercato rimane la “segmento B” di Opel, di freschissimo aggiornamento della nuova generazione, mentre da più di un anno Fiat è assente, l’ipotesi è che il management della new Company, guidato dal CEO Carlos Tavares, torni a proporre un asset simile. Si ribadisce che tutto ciò rappresenta una supposizione, e come tale va interpretata, anche perché la fascia “supercompatta” annovera tanto Opel Corsa quanto Peugeot 208, nonché Citroen C3. Le offerte, dunque, non mancano; e Fiat, nel piano industriale al 2021 illustrato da Mike Manley poco meno di un anno fa, non faceva riferimento a novità che in un’ottica a breve-medio termine possano assumere il ruolo di erede di Fiat Punto, mentre al contrario si puntava su elettrificazione, sviluppo della produzione “Sport Utility” e della fascia premium. Se mai, potremmo assistere ad una redistribuzione geografica dei marchi, qualora si decidesse per una nuova Fiat di segmento B, che attualmente viene, in Fca, rappresentato dalla ormai longeva Lancia Ypsilon, modello tuttavia venduto soltanto in Italia, e con notevole successo. Il gradimento del nostro mercato nei confronti dell’ultima “superstite” Lancia è all’origine della nostra ipotesi verso una eventuale nuova “supercompatta” a marchio Fiat. Staremo a vedere, anche perché il rischio è che, nel riposizionamento delle lineup e nella fusione fra diversi modelli, il nobile marchio torinese potrebbe scomparire dai listini.

Citycar: pacifica convivenza

Scendendo di una classe, e focalizzando l’attenzione sul segmento A che in Italia è da lungo tempo appannaggio di Fiat Panda, e con Fiat 500 nel ruolo di citycar-premium, il panorama è contrassegnato dalle tre “cugine” Citroen C1, Peugeot 108 ed Opel Adam: tre modelli-baby piuttosto lontani, nell’impostazione, dalla bestseller Panda, la cui nuova generazione potrebbe arrivare nel 2021.

Come si contestualizzerebbe Fiat Centoventi?

Resta da definire il ruolo della interessante concept 100% elettrica svelata lo scorso marzo in occasione del Salone di Ginevra 2019 e, nelle scorse settimane, proposta in un configuratore online sviluppato per sondare il terreno delle preferenze da parte del pubblico. Difficile pensare che il “progetto Centoventi” (da più parti individuato come una futura declinazione elettrica di Fiat Panda, sebbene i vertici Fca non abbiano mai confermato questa destinazione di immagine) venga messo da parte. Potrebbe avvenire, anzi, che quale “ossatura” venga utilizzata la piattaforma Cmp-Compact Modular Platform messa a punto da Psa e che debutta sulle configurazioni 100% elettriche di Opel Corsa e Peugeot 208 (rispettivamente e-Corsa ed e-208).

La situazione ai “piani alti”

Se nel segmento C può esserci un “conflitto” (relativo) tra Alfa Romeo Giulietta e Peugeot 308, allo stesso modo della fascia compact-SUV e crossover (Citroen C3 Aircross, Fiat 500X, Jeep Renegade, Opel Crossland X e Peugeot 2008) per quanto differenti siano le connotazioni di riferimento, lo scenario attuale muta se si prendono in considerazione i segmenti superiori. La stessa Jeep, oltre che popolarissima oltreoceano, contribuisce alla diffusione dei veicoli “Sport Utility” per Fca in Europa. Poca concorrenza, d’altro canto, nella fascia premium, da parte di Psa. Il Gruppo francese potrebbe, a questo proposito, estendere la diffusione della propria piattaforma modulare Emp2 alla lineup Jeep ad alimentazione ibrida plug-in, dando una mano ad Fca nell’ampliamento delle proprie proposte all’insegna dell’elettrificazione. A sua volta, Fca avrebbe buon gioco nel fornire a Psa la propria piattaforma Giorgio Evo per lo sviluppo di modelli di fascia premium per Opel e Peugeot.

La posizione del Governo

Tutto quanto elencato (e sicuramente mancano altri elementi all’appello: ad esempio, come si concretizzerebbe la presenza della nuova “Alliance” in nord America) viene da più parti accompagnato da una domanda: come si pone, nella più grande strategia di riassetto automotive del 2019, il ruolo del Governo italiano? Non va dimenticato – ed è apparso ancora una volta evidente, la scorsa estate, nei “giorni caldi” della mancata fusione tra Fca e Renault-Nissan-Mitsubishi – che oltralpe lo Stato detiene partecipazioni di un certo peso nelle quote dei grandi Gruppi industriali. In questo caso, Peugeot. Al contrario, in Italia non c’è alcuna quota azionaria pubblica in Fiat-Chrysler Automobiles. C’è chi, in questi giorni, osserva che lo Stato – che per decenni ha elargito aiuti a Fiat Auto – avrebbe più di un motivo per far sentire in maniera concreta la propria presenza. Se non in titoli, almeno come tutela delle realtà italiane di Fca. L’equilibrio è infatti delicato: da una parte lo Stato francese che, per il concetto di Nazione intesa come entità politica, spirituale e culturale che deriva dalla Rivoluzione del 1789, interviene nelle grandi aziende con quote più o meno “di peso”; al di qua delle Alpi, si vorrebbe che il Governo non stesse alla finestra. Come riportato nelle scorse ore da Il Messaggero, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ed il neo-ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, hanno dichiarato, rispettivamente, “Non posso giudicare l’accordo Fca-Psa: non ne conosco i dettagli” (Conte), e “Non siamo riusciti ad avere un colloquio; c’è stato un contatto telefonico mancato, ci aggiorneremo presto con Elkann, con i vertici Fiat e conoscerò i dettagli” (Patuanelli, rispondendo ai cronisti a margine del meeting Confitarma). Lo stesso ministro dello Sviluppo Economico ha peraltro fatto sapere di avere incontrato John Elkann, che sarà presidente del nuovo “big Group”, alcuni giorni fa; dunque, prima che il progetto di fusione venisse sancito “nero su bianco”.

Sul tavolo si gioca una partita della massima importanza per gli stabilimenti Fca italiani: il piano (5 miliardi di euro) di riassetto industriale al 2021 annunciato a fine novembre 2018 dal CEO Mike Manley e, di fatto, già avviato. Il premier Conte intende chiedere che “In Italia vengano assicurare produttività e continuità aziendale”. E, in merito alla questione delle economie di scala, “Ben vengano; è tuttavia essenziale che garantiscano il livello di occupazione e gli investimenti in Italia”. Una posizione ribadita dal ministro Patuanelli, il quale (riporta sempre Il Messaggero) avverte che chiederà che “Le economie di scala, rispetto ai costi, non vadano a ripercuotersi sui piani industriali nel nostro Paese”. Riguardo alla conferma, da parte di Fca, di mantenere la sede della nuova “big Alliance” con Psa in Olanda, il ministro Patuanelli è categorico: “Occorre, e dopo le elezioni europee l’ho scritto in una lettera ufficiale inviata ai rappresentanti delle istituzioni ed ai ministri dello Sviluppo Economico UE, perché all’interno dell’Unione Europea non vi siano agevolazioni fiscali che possano dar vita ad una indiretta concorrenza sleale”.

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