Big car, big profit… alla ricerca dell’utile perduto

Fabrizio Brunetti
02 Novembre 2010
Big car, big profit... alla ricerca dell'utile perduto

I costruttori premium ottengono grandi profitti a fronte di piccole quote di mercato: analizziamo i piani e le speranze di successo degli inseguitori

I costruttori premium ottengono grandi profitti a fronte di piccole quote di mercato: analizziamo i piani e le speranze di successo degli inseguitori

Gli analisti finanziari dell’auto hanno la sana abitudine di confrontare i dati di bilancio dei produttori mondiali di automobili e trarne degli indicatori molto utili a chiarire i rapporti di forza e la bontà dei risultati. Il primo indicatore, ovvero il ricavo medio per pezzo venduto è ciò che fa la differenza e rende direttamente confrontabili i dati dei grandi produttori generalisti con quelli premium.

Bisogna però considerare anche il ricavo dei servizi finanziari e l’indicatore principale che tiene conto di entrambi questi elementi, vale a dire il margine sui ricavi totali, espresso in percentuale.

Ebbene i generalisti Fiat (ante Chrysler), Peugeot e Renault hanno un risultato simile tra loro, attorno al 3%, Volkswagen quasi il doppio, mentre Bmw e Mercedes-Benz totalizzano rispettivamente 7,5% e 8,8%. I numeri dimostrano quindi che tra i costruttori europei l’assioma “big car, big profit” fa la differenza.

Certo la produttività per addetto e l’organizzazione produttiva giocano la loro parte ma per i costruttori europei – anche dove questi altri due indicatori sono molto simili, come nel caso del confronto di BMW e Mercedes con Volkswagen/Audi –  chi produce auto premium ha un risultato di redditività per prodotto molto superiore a chi produce auto generaliste.

Se nel confronto entrano i produttori giapponesi o coreani, il discorso cambia perché nell’equilibrio tra questi tre indicatori assume un maggior peso la superiore efficienza produttiva e i costi inferiori che compensano ampiamente risultati di margine sul prodotto simili ai costruttori generalisti europei.

Così nella valutazione complessiva di redditività è ancora Toyota a prevalere sia pure di misura su Mercedes e BMW; un generalista, ma asiatico, di un soffio su due produttori premium europei.

Dunque assodato che i margini per prodotto salgono in maniera esponenziale e non progressiva man mano che si sale nell’offerta di prodotto premium, cioè che l’assioma “big car big profit” è specularmente confermato dall’opposto “small car, small profit” cosa possono fare i costruttori generalisti europei per aumentare i loro profitti?

La risposta ideale sarebbe produrre vetture costose e di prestigio con marchi premium ma con organizzazione produttiva e costi orientali. Difficile ma è probabilmente l’unica strada da seguire. In effetti tutti i grandi costruttori generalisti europei (e americani) stanno cercando di produrre o assemblare in oriente.

I mercati di riferimento sono ormai Cina e India ed è lì che bisogna produrre e distribuire, quasi sempre attraverso la strada delle collaborazioni, ma questa via tra accordi o integrazioni è piena d’incognite e spesso si è rivelata fallimentare. Ne sa qualcosa proprio il gruppo Fiat che dopo tre successivi tentativi di penetrazione in Cina si è fermato ad una quota marginale del mercato in attesa di un nuovo accordo che dovrebbe aumentare l’incidenza nei prossimi due anni.[!BANNER]

Renault invece ha centrato la propria strategia nell’integrazione con Nissan e Peugeot, da sempre gelosa della propria autonomia, sugli accordi bilaterali a tutto campo. Lo scenario destinato a cambiare di più però è probabilmente quello Fiat/Chrysler.

Quello che mancava al gruppo italiano – leader nelle “small cars” (e negli “small profits”) – ora c’è. Big cars, grandi motori a sei e otto cilindri, tecnologia avanzata Fiat col Multiair, marchi davvero planetari come Jeep, rete produttiva e distributiva per i suoi marchi premium sinora destinati al piccolo cabotaggio o a mercati prevalentemente nazionali.

Parliamo di Alfa Romeo, Lancia e Maserati che nei prossimi tre anni entreranno o rientreranno con competitività molto maggiore nei segmenti di mercato tipici dei marchi premium e godranno di una rete produttiva e distributiva finalmente adeguata.

Lancia e Chrysler con un’integrazione completa, una gamma che spazia dalla piccola Ypsilon all’ammiraglia 300C/Flaminia e una spartizione dei mercati globali, Alfa con il supporto indispensabile della produzione americana, Maserati con l’ingresso nel ricco segmento E.

E’ di questi giorni la conferma che Lancia e Jeep saranno insieme in molti mercati e lo stesso nel tempo accadrà probabilmente anche per Alfa Romeo. In questa strategia starebbe come la classica ciliegina un accordo con Tata per unire al futuro commerciale dei marchi premium anche Jaguar e Land Rover.

Sarebbe un accordo perfetto che ottimizzerebbe i costi delle big cars dei due gruppi. Tata tra l’altro ha l’obiettivo di sostituire le motorizzazioni Ford che equipaggiano Jaguar e Land Rover, grosse e non modernissime, con altre più prestazionali ma con basse emissioni. Il parco motori di Fiat/Chrysler, dai moderni ed efficienti 4 cilindri Fiat, al V6 Pentastar, al V8 Hemi, tutti con tecnologia Multiair, ai diesel 4 e 6 cilindri, costituirebbe una partnership ideale.

Il costruttore indiano dal canto suo porterebbe il peso della sua organizzazione sui mercati asiatici e della sua efficienza produttiva. Sembra un matrimonio ideale che completerebbe la strategia di presenza nell’offerta dei prodotti con alti margini di profitto. In questo modo potremmo anche tornare ad immaginare un’ammiraglia sportiva Alfa Romeo, che possa rivaleggiare con Audi A7, Jaguar XF o Mercedes CLS e che al momento non fa parte dei piani di sviluppo del marchio. Questo matrimonio s’ha da fare!

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